Cannes 2019 ha un programma sontuoso che riserva molti dei suoi “botti” per la seconda settimana: Tarantino, Dolan, Kechiche, Bellocchio arriveranno tutti dopo lo scollinamento del weeekend, ma già in questi primi tre giorni di proiezioni abbiamo ammirato una qualità decisamente più alta rispetto alle ultime due scialbe edizioni e una “linea editoriale” precisa, probabilmente naturale visto il momento difficile che vivono le democrazie occidentali. Un festival che dà grande spazio al discorso politico, a partire dall’opening act di Jim Jarmusch, The Dead Don’t Die, divertente e raffinato zombie movie che ha battezzato il concorso. Il nuovo film del cineasta americano ha toni da commedia-horror ma contiene una metafora politica piuttosto chiara: siamo nella tranquilla e inesistente cittadina di provincia di Centerville, dove lo sceriffo Robertson (Bill Murray) e l’agente Peterson (Adam Driver, in un personaggio molto simile a quel Paterson del precedente film di Jarmusch da cui lo divide una sola vocale) gestiscono con flemma una quotidianità piuttosto monotona. Apprendiamo però che il dissesto climatico voluto dalle multinazionali, con la connivenza di politici idioti che si sentono sproloquiare via radio, ha prodotto uno spostamento dell’asse di rotazione della terra e all’improvviso salta definitivamente quell’ordine simbolico che, a fatica, ancora teneva insieme la nostra percezione del mondo: l’alternanza tra il giorno e la notte si fa confusa, gli schermi dei nostri device si spengono e gli orologi non segnano più l’ora. In un reale che non siamo più in grado di misurare, nella tranquilla cittadina i morti si risvegliano: il primo esilarante zombie che ci si presenta sullo schermo è nientemeno che Iggy Pop, il quale esce dalla tomba di Samuel Fuller e cerca disperatamente caraffe di caffè. Sono gli zombie più trumpiani che si siano mai visti al cinema, affamati di carne umana e junk food, assetati di caffè e alla ricerca di banda larga e tecnologia. Ci vogliono con loro nel loro aldilà, anche perché, come dice la strepitosa allitterazione del titolo originale, i morti non muoiono, e questo è un bel problema. Con un citazionismo consapevole e irresistibilmente disordinato, Jarmusch sposta di una tacca la metafora che fu di Romero: sì, gli zombie che infestano Centerville siamo sempre noi, proprio come in Dawn of the Dead, ma ormai sono (siamo) arrivati oltre il consumismo e il capitalismo, sono (siamo) i prodotti putrescenti di un’epoca incomprensibile e ottusa. Tra gag metacinematografiche (il personaggio di Adam Driver che prevede che cosa accadrà perché “ha letto la sceneggiatura”) e un cast all stars (Driver, Bill Murray, Tilda Swindon, Steve Buscemi, Chloë Sevigny, Selena Gomez), spicca lo straniante eremita filosofo interpretato da Tom Waits, che permette a noi, spettatori-zombie, di osservarci dall’esterno.
Non meno politici altri due film visti in concorso in questi primi giorni, entrambi molto interessanti. Kleber Mendonça Filho, dopo l’ottimo Aquarius di due anni fa, torna nella line up principale del festival francese con Bacurau, un’opera di realismo magico ambientata in un imprecisato futuro distopico (che ricorda in modo inquietante il presente), in Brasile. L’immaginario villaggio che dà titolo al film, perso in mezzo alla foresta, sparisce improvvisamente dalle mappe, mentre gli abitanti (tra i quali spicca la dottoressa interpretata da un’eccellente Sonia Braga) tentano di sopravvivere, difendendo come possono le loro radici culturali e la loro indipendenza contro chi li ha privati addirittura dell’acqua. Il nemico è l’istituzione, rappresentata dal viscido sindaco “bolsonariano” Tony Jr., che ha un piano diverso per Bacurau: ha venduto agli americani l’intera area come singolaree “riserva di caccia all’uomo”, affinché sfoghino le proprie pulsioni aggressive. Gli yankee, insomma, pagano per poter spazzare via il villaggio, già assente dalla carta geografica, anche dal mondo reale, e i suoi abitanti, ma questi sanno bene come difendersi. Con qualche eccesso didascalico, lo stile visionario e al tempo stesso iperrealistico del regista brasiliano tiene in piedi una specie di western efficacemente surreale, grafico e violento, che dice molto e in modo efficace del Brasile di Bolsonaro, “venduto”, nel corpo e nell’anima, al capitalismo occidentale e sacrificato sull’altare della violenza.
Apparentemente più classico è Les Miserables del regista francese Ladji Ly, esordiente che finisce direttamente (e meritatamente) in concorso. Ambientato nella banlieu parigina di Montfermeil, dov’era collocato anche il romanzo di Hugo e dove il regista effettivamente vive, racconta la tensione tra le comunità più numerose della zona, i gitani e i musulmani, tensione che esplode, però, solo quando i poliziotti delle brigate anticrimine compiono un atto di violenza contro un ragazzino, gesto che viene accidentalmente ripreso da un drone. Se stile e ritmo sono da poliziesco classico, l’aspetto realmente anticonvenzionale risiede nella rappresentazione dei poliziotti stessi, incapaci di gestire le situazioni incandescenti in cui si trovano e a conti fatti molto meno razionali dei loro “miserabili” antagonisti.
Una visione ‘pulsionale’ dell’istituzione, che reagisce di pancia perché incapace di fare altro, e che sembra rappresentare perfettamente, ben al di là delle situazioni raccontate dal film, la condizione reazionaria di molte democrazie europee, Francia inclusa, nonostante l’apparente ‘presentabilità’ di facciata del macronismo.
A lato di questo discorso politico si colloca il quarto titolo del concorso che abbiamo avuto modo di vedere, Little Joe, della regista austriaca Jessica Hausner, che nel 2009 aveva presentato a Venezia il convincente Lourdes. È il primo film in lingua inglese della 46enne cineasta di Vienna, un simil sci-fi ambientato in un tempo imprecisato in cui un team di biologi ha creato la “pianta della felicità”, “Little Joe”, appunto, che esala un ormone in grado di alterare l’umore di chi le sta intorno. In questo scenario, seguiamo la vicenda di una ricercatrice di punta del team, Alice (bellissima e bravissima Emily Beecham), che regala una di queste piante al figlio Joe. Nel contesto domestico, però, cresce il dubbio, suo e nostro: in che modo questa pianta cambia effettivamente l’umore delle persone? Ci sono effetti collaterali? In una confezione esteticamente eccellente, il film della Hausner prende una strada ambigua, sospesa, rinunciando alla risoluzione dei molti enigmi ma lasciando anche noi con molti dubbi, anche sull’effettiva riuscita di un’opera affascinante e in qualche modo irrisolta.
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